Discorso sulle donne – Natalia Ginzburg

Una tazza di tè e quattro chiacchiere con un’amica, un’amica che riconosce in altre donne una specie di ‘sorellanza’, quell’empatia che ti fa tendere la mano verso l’altra e dire: “afferra la mia mano, che usciamo da questo maledetto pozzo!”, ha cambiato il mio stato d’animo.

E così un pomeriggio che si prospettava carico di frivolezze, paure, paranoie, racconti di donne, mi ha regalato questo stralcio letterario di consapevolezza, e quando conosci il problema sei già più vicino alla soluzione.

Il problema è che noi donne abbiamo spesso il brutto vizio di cadere in un pozzo, un tunnel fatto di paure, di inadeguatezza, di fragilità. E non è facile tirarsene fuori, perché anche dopo, come recidive ci ricadiamo dentro… E allora? Leggete questo articolo scritto dalla Ginzburg e provate ad abbandonare questa attrazione per l’abisso che ci porta a rotolare verso il fondo e ad autocommiserarci per gran parte dei nostri giorni.

Buona lettura!

“L’altro giorno m’è capitato fra le mani un articolo che avevo scritto subito dopo la liberazione e ci sono rimasta un po’ male. Era piuttosto stupido: quel mio articolo parlava delle donne in genere, e diceva delle cose che si sanno, diceva che le donne non sono poi tanto peggio degli uomini e possono fare anche loro qualcosa di buono se ci si mettono, se la società le aiuta, e così via. Ma era stupido perché non mi curavo di vedere come le donne erano davvero: le donne di cui parlavo allora erano donne inventate, niente affatto simili a me o alle donne che m’è successo di incontrare nella mia vita; così come ne parlavo pareva facilissimo tirarle fuori dalla schiavitù e farne degli esseri liberi. E invece avevo tralasciato di dire una cosa molto importante: che le donne hanno la cattiva abitudine di cascare ogni tanto in un pozzo, di lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro, e annaspare per tornare a galla: questo è il vero guaio delle donne.

Le donne spesso si vergognano d’avere questo guaio, e fingono di non avere guai e di essere energiche e libere, e camminano a passi fermi per le strade con bei vestiti e bocche dipinte e un’aria volitiva e sprezzante (…) M’è successo di scoprire proprio nelle donne più energiche e sprezzanti qualcosa che mi indiceva a commiserarle e che capivo molto bene perché ho anch’io la stessa sofferenza da tanti anni e soltanto da poco tempo ho capito che proviene dal fatto che sono una donna e che mi sarà difficile liberarmene mai.

Ho conosciuto moltissime donne, donne tranquille e donne non tranquille, ma nel pozzo ci cascano anche le donne tranquille: tutte cascano nel pozzo ogni tanto. Ho conosciuto donne che si trovano molto brutte e donne che si trovano molto belle, donne che riescono a girare i paesi e donne che non ci riescono, donne che hanno mal di testa ogni tanto e donne che non hanno mai mal di testa, donne che hanno tanti bei fazzoletti e donne che non hanno mai fazzoletti o se li hanno li perdono, donne che hanno paura d’essere troppo grasse e donne che hanno paura d’essere troppo magre, donne che zappano tutto il giorno in un campo e donne che spezzano la legna sul ginocchio e accendono il fuoco e fanno la polenta e cullano il bambino e lo allattano e donne che s’annoiano a morte e frequentano corsi di storia delle religioni e donne che s’annoiano a morte e portano il cane a passeggio e donne che s’annoiano a morte e tormentano chi hanno sottomano, e donne che escono il mattino con le mani viola dal freddo e una sciarpetta intorno al collo e donne che escono al mattino muovendo il sedere e specchiandosi nelle vetrine e donne che hanno perso l’impiego e si siedono a mangiare un panino su una panchina del giardino della stazione e donne che sono state piantate da un uomo e si siedono su una panchina del giardino della stazione e s’incipriano un po’ la faccia.

Ho conosciuto moltissime donne, e adesso sono certa di trovare in loro dopo un poco qualcosa che è degno di commiserazione, un guaio tenuto più o meno segreto, più o meno grosso: la tendenza a cascare nel pozzo e trovarci una possibilità di sofferenza sconfinata che gli uomini non conoscono forse perché sono più forti di salute o più in gamba a dimenticare se stessi e a identificarsi con lavoro che fanno, più sicuri di sé e più padroni del proprio corpo e della propria vita e più liberi. Le donne incominciano nell’adolescenza a soffrire e a piangere in segreto nelle loro stanze, piangono per via del loro naso o della loro bocca o di qualche parte del loro corpo che trovano che non va bene , o piangono perché pensano che nessuno le amerà mai o piangono perché hanno paura di essere stupide o perché hanno pochi vestiti; queste sono le ragioni che danno a loro stesse ma sono in fondo solo dei pretesti e in verità piangono perché sono cascate nel pozzo e capiscono che ci cascheranno spesso nella loro vita e questo renderà loro difficile combinare qualcosa di serio.

Le donne pensano molto a loro stesse e ci pensano in modo doloroso e febbrile che è sconosciuto a un uomo. Le donne hanno dei figli, e quando hanno il primo bambino comincia in loro una specie di tristezza che è fatta di fatica e di paura e c’è sempre anche nelle donne più sane e tranquille. E’ la paura che il bambino si ammali o è la paura di non avere denaro abbastanza per comprare tutto quello che serve al bambino, o è la paura d’avere il latte troppo grasso o d’avere il latte troppo liquido, è il senso di non poter più girare tanto i paesi se prima si faceva o è il senso di non potersi più occupare di politica o è il senso di non poter più scrivere o di non poter più dipingere come prima o di non poter più fare delle ascensioni in montagna per via del bambino, è il senso di non poter disporre della propria vita , è l’affanno di doversi difendere dalla malattia e dalla morte perché la salute e la vita della donna è necessaria al suo bambino.(…) Le donne sono una stirpe disgraziata e infelice con tanti secoli di schiavitù sulle spalle e quello che dovono fare è difendersi dalla loro malsana abitudine di cascare nel pozzo ogni tanto, perchè un essere libero non casca quasi mai nel pozzo e non pensa così sempre a se stesso ma si occupa di tutte le cose importanti e serie che ci sono al mondo e si occupa di se stesso soltanto per sforzarsi di essere ogni giorno più libero. Così devo imparare a fare anch’io per la prima perchè se no certo non potrò combinare niente di serio e il mondo non andrà mai avanti bene finchè sarà così popolato d’una schiera di esseri non liberi.”

Natalia Ginzburg, Discorso sulle donne, in Tuttestorie n. 6/7 dicembre 1992

Vite Storte – Nunzia Scalzo

A tratti ho parteggiato per le vittime, a tratti per i carnefici.

Una raccolta di omicidi e fatti di sangue avvenuti in Sicilia nel secolo scorso, alcuni risolti e altri no. Racconti a metà tra la cronaca giornalistica e la storia in cui le protagoniste -vittime o carnefici- sono le donne. Un libro femminile ma non femminista, dove gli sconti non sono contemplati.

Difficile non immedesimarsi, le vittime conducevano apparentemente vite normali, e pensare che questa normalità sfocia poi in una tragedia è agghiacciante, ti mette di fronte alla consapevolezza che di normale nella vita può non esserci nulla, perché la patologia psichica è solo ben camuffata.
“Le femmine sono tutte puttane” l’insulto atavico che ci portiamo come dote scomoda, ma affascinante al tempo stesso è il filo conduttore di queste vite spezzate. Vuoi o non vuoi, in qualsiasi caso, è colpa della femmina. Vittima a volte, ma a volte anche astuta e subdola, che dell’appellativo scomodo se ne fa un vanto e come un dato di fatto ascisce e reagisce di conseguenza.
Il libro evidenzia come l’articolo 587 C.P. sia stato largamente evocato per uscire indenni dalle condanne per omicidio, anche quando il giustiziere aveva comunque premeditato e organizzato tutto ad arte.

Il testo è scorrevole e le storie intriganti.

“Ti commiseravo, mi facevi tenerezza, forse un po’ pena, eri sempre solo, triste, silenzioso, sempre in disparte, non defilato ma emarginato dagli altri, o forse autoemarginato. Non eri cattivo, non l’ho mai pensato. Mi sembravi solo uno sfigato”. (Dal diario di Emma Pinto Cammarata).

Commovente la chiusura. Una relazione con le cose, gli abiti, gli oggetti appartenuti alla vittima, è più stabile che con l’amata. Siamo nell’era di IoT (Internet delle cose) gli oggetti e gli elettrodomestici sono robotizzati e possono parlare a distanza con il padrone di casa, siamo all’avanguardia per le scoperte tecnologiche, ma non sappiamo ancora dialogare con le persone, non sappiamo vedere oltre il nostro “Io”, che prepotente chiede soddisfazione e ‘giustizia’.

Tanta tristezza nel prendere atto che dal secolo scorso ad oggi non sia cambiato nulla, che il 587 CP si chiami adesso “femminicidio per attacco di gelosia” e che sul piano educativo e comunicativo con l’altro sesso restiamo arenati.
Complimenti all’autrice Nunzia Scalzo per aver condiviso attraverso le sue parole queste “Vite Storte” e oltraggiate.

Titolo: “Vite Storte”

Autore: Nunzia Scalzo

A&B editrice

Prezzo di copertina 12 €

«Ma tu mi ami?» chiese Alice.
«No, non ti amo.» rispose il Bianconiglio.
Alice corrugò la fronte e iniziò a sfregarsi nervosamente le mani, come faceva sempre quando si sentiva ferita.
«Ecco, vedi? – disse il Bianconiglio – Ora ti starai chiedendo quale sia la tua colpa, perché non riesci a volerti almeno un po’ di bene, cosa ti renda così imperfetta, frammentata. Proprio per questo non posso amarti. Perché ci saranno dei giorni nei quali sarò stanco, adirato, con la testa tra le nuvole e ti ferirò. Ogni giorno accade di calpestare i sentimenti per noia, sbadataggine, incomprensione. Ma se non ti ami almeno un po’, se non crei una corazza di pura gioia intorno al tuo cuore, i miei deboli dardi si faranno letali e ti distruggeranno.
La prima volta che ti ho incontrata ho fatto un patto con me stesso: mi sarei impedito di amarti fino a che non avessi imparato tu per prima a sentirti preziosa per te stessa. Perciò, Alice no, non ti amo. Non posso farlo.»

Nessuno può volare – Simonetta Agnello Hornby

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“A mio avviso, se il meteo ha annunciato temporali è meglio portarsi un ombrello robusto anziché dispiacersi, prendersela con il meteo o rinunciare a uscire.”

“Nessuno può volare” è un libro a quattro mani, scritto da Simonetta Agnello Hornby e da suo figlio George, malato di sclerosi multipla primaria e progressiva, e per questo costretto a muoversi in carrozzella e a non avere molte speranze di cura, purtroppo, in quanto si tratta di una forma rara di sclerosi.
Leggendo saliamo sul treno dei ricordi, per un viaggio nel tempo con l’autrice, che vive a Londra dal 1972, che racconta della sua infanzia trascorsa in Sicilia tra Agrigento e Palermo, tra bambinaia claudicante e zie cleptomani.
Insieme a lei e a George compiamo un viaggio nello spazio, alla ricerca di bellezze artistiche, in un percorso ad ostacoli, fatto di barriere architettoniche che insistono ancora su tutto il territorio e che si alternano a gentilezze e scortesie distribuite dalla Sicilia fino a Londra.

“Tutti gli uccelli sanno volare, ma nessun essere umano ci è mai riuscito. Nessuno. Nessuno può volare.”

Ho avuto l’onore e il piacere, nonché modestamente la determinazione, visti i numerosi impegni dell’autrice, di poter intervistare Simonetta Agnello Hornby, scrittrice dal 2002, ma già avvocato di successo a Londra, nonché donna, madre di due figli, e nonna di quattro nipotini. Se dovessi scegliere una sola parola per descriverla sceglierei: “Energia”, contagiosa per di più!

“Come noi non possiamo volare, così George non avrebbe più potuto camminare: questo non gli avrebbe impedito di godersi la vita in altri modi… Nella vita c’è di più del volare, e forse anche del camminare. Lo avremmo trovato, quel di più.”

Dall’alto dei suoi quasi 73 anni, la celebre scrittrice non si lascia abbattere facilmente, la notizia della malattia del figlio George è stata agghiacciante, ma dopo un primo momento di dolore, si è rimboccata tenacemente le maniche, per risollevarsi e aiutare la sua famiglia.

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Scrivere è l’unica attività che riesce ad allontanare la sua ansia costante per il figlio.
Leggere che avrebbe volentieri rinunciato al talento e alla sua fama di scrittrice, pur di avere un figlio sano, riempie di tenerezza, e quasi, ci si commuove quando prova a trovare una causa scatenante in questo triste destino, che è toccato a una parte di sé, perché i figli non sono altro che una parte di noi, del nostro cuore.

“Sono sempre stato il tipo di persona che considera la vita una serie di sfide inevitabili, e credo che viverla bene dipenda proprio da come queste sfide vengono affrontate, evitando di fermarsi a recriminare sull’ingiustizia o sulle difficoltà; o, peggio ancora, di arrendersi.”

La lettura è scorrevole, ricca di aneddoti, alcuni dei quali divertenti, ma non cadete nell’errore di pregiudizio, non parla solo di disabilità e ostilità sociali, Simonetta scrive col cuore a tutte le persone che hanno il piacere di lasciarsi arricchire da esperienze e riflessioni, che nella vita non sono mai abbastanza.

Quasi in tutti i capitoli del libro possiamo leggere la parola “rispetto”, e se non compare nei caratteri tipografici, si può leggere comunque tra le righe.

Una scrittura semplice, in qualche pagina c’è traccia di inflessione dialettale, quelle ciliegine di parole in siciliano, che se fossero tradotte perderebbero di intensità.

“Per migliorare la vita dei disabili, e di noi abili, e vivere insieme, e fronteggiare le difficoltà – loro e nostre – dobbiamo anzitutto conoscerci e imparare ad accettarci. Buoni e cattivi, sani e malati, intelligenti e no.”

 

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La trama

Quando si nasce in una famiglia come quella di Simonetta Agnello Hornby, virgola si cresce con la consapevolezza che si è tutti normali, ma diversi, ognuno con le proprie caratteristiche, talvolta un po’ strane. E allora con naturalezza “di un cieco si diceva ‘non vede bene’, del claudicante ‘fa fatica a camminare’, dell’obeso ‘è pesante’, dell’invalido ‘gli manca una gamba’, dello sciocco ‘a volte non capisce’, del sordo ‘con lui bisogna parlare ad alta voce'” senza mai pensare che si trattasse di difetti o menomazioni.
Attraverso una serie di ritratti sapidi e affettuosi, facciamo così la conoscenza di Ninì, sordomuta, della bambinaia Giuliana, zooppa, del padre con una gamba malata, e della pizzuta zia Rosina, cleptomane – quando l’argenteria scompare dalla tavola, i parenti le si avvicinano di soppiatto per sfilarle le posate dalle tasche, piano piano, senza che se ne accorga, perché non si deve imbarazzare…
E poi naturalmente conosciamo George, il figlio maggiore di Simonetta. Non è facile accettare la malattia di un figlio, eppure è possibile, la chiave di volta risiede proprio in quel “nessuno può volare”…

“Nessuno può volare”

220 pagine

Edizioni Feltrinelli

16,50€

La Gatta Cenerentola, ovvero la dimostrazione di come una scarpetta possa cambiarti la vita!

20170916_183504La gatta Cenerentola è una celebre fiaba di Giambattista Basile, inclusa nella raccolta postuma Lo cunto de li cunti (1634-1636).
È una delle redazioni più note della fiaba di Cenerentola, un racconto popolare tramandato sin dall’antichità in centinaia di versioni provenienti da diversi continenti.
La conferma di come una scarpetta possa cambiarti la vita! (Citazione di una shoes-addicted!)
La fiaba è la più antica versione di Cenerentola, da cui trassero poi ispirazione Charles Perrault e i fratelli Grimm.
La versione in lungometraggio animato di Cendrillon (Walt Disney 1950) è una variante decisamente più soft, romantica e censurata della versione di Basile. In quest’ultima l’eroina (di nome Zezolla) si macchia addirittura dell’omicidio della sua prima matrigna.
La giovane Zezolla, figlia di un principe, viene indotta dalla propria istitutrice a uccidere la matrigna, questa malvagiamente andrà a sostituire la prima matrigna, superandola anche in cattiveria, malgrado la bontà della figliastra.
Questa fiaba mette in risalto la malvagità (dell’istitutrice), l’invidia (dell’istitutrice e delle di lei sei figlie), l’ottusaggine (del principe padre di Zezolla) e ancora l’avidità (del messo di corte).
La fiaba contiene inoltre una interessante testimonianza della cucina napoletana del ‘600, e dimostra la diffusione, già all’epoca, di pastiera e casatiello, piatti tipici della cucina campana.

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In una contaminazione di cunti nati per il passatempo delle fanciulle (“Lo cunto de li cunti, ovvero lo trattenimiento de peccerille”) Basile miscela sapientemente i racconti di fiabe popolari realizzando un misto di Cenerentola, la Bella addormentata e il Gatto intelligente.
Il grande letterato Giambattista Basile (Giugliano in Campania 1566 – Giugliano in Campania 1632) era figlio di nobili, è proprio grazie al fatto di appartenere ad una famiglia di notabili benestanti, che poté dedicare la sua vita quasi interamente alla letteratura oltre a fare esperienze come soldato di ventura, cortigiano ed amministratore o governatore presso varie corti e feudi. L’ambiente, in cui venne a trovarsi, gli permise di frequentare la società letteraria “dell’Accademia degli Stravaganti”, fondata da Andrea Cornaro, col nome di “pigro”. Quando seguì la sorella Adriana, celebre cantante dell’epoca, alla corte dei Gonzaga in Mantova dove lo accolsero benevolmente, entrò a far parte dell’ “Accademia degli Oziosi”, qui venne nominato “gentiluomo di Corte” il 13 marzo 1613, e “cavaliere” il 6 aprile dello stesso anno ed ottenne la nomina a Conte Palatino.

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Le sue opere più famose sono scritte in lingua Napoletana si intitolano “Le Muse Napolitane” e “ Lo Cunto de li cunti ovvero lo trattenimiento de peccerille”, noto anche come il “Pentamerone”, chiamato così da un editore e non per scelta del Basile, seguendo l’ispirazione del Boccaccio nella raccolta di novelle del “Decamerone”, ma le storie narrate da Basile sono delle fiabe tratte dalla tradizione popolare che trasforma in prodotti letterari, con l’uso della lingua napoletana più colta di quella effettivamente parlata e con l’inserimento di annotazioni ironiche e commenti moralistici.
La scelta di scrivere in napoletano corrisponde alla tendenza propria dell’età barocca di sperimentare nuovi e più attuali modi espressivi, lingua sminuita solo con l’uso forzato del toscano.
Gianbattista morì a Giugliano, nel 1632, ed è qui sepolto nella chiesa di Santa Sofia, eppure Gian Alessio Abbattutis, anagramma col quale si firmava Giovan Battista Basile, morì senza la gioia di vedere la propria opera pubblicata e conosciuta. Fu solo dopo la sua morte, che la sorella diede alla stampa le sue opere.
Proprio in questi giorni è in uscita nelle sale cinematografiche un lungometraggio de La Gatta Cenerentola. Il film tra suggestioni classiche e postmoderne rilegge la favola ‘codificata’ nel XVII secolo da Giambattista Basile, ma di tradizione orale millenaria. il progetto attesissimo è rivolto a un pubblico di giovani e adulti, vi allego il Teaser del film, sono sicura che la curiosità ha contagiato anche voi!

A.A.M.

Serendipità. Esiste?

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Un mercatino, un libro. Una dedica

Natale 1983

Sergio regala a “For You” L’educazione sentimentale di Flaubert, senza averlo mai letto.

Chiude la dedica con un “Ti Amo”

Augusta 2017

Valeria ha acquistato Flaubert in un mercatino, in una bancarella tra la frutta e la verdura.

Questo libro l’ha chiamata e lei lo ha portato con sé a casa.

Trovando la dedica, Valeria si incuriosisce e lancia una ricerca online.

Missione: trovare Sergio.

#CercandoSergio

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Lei/lui avrà in tutto questo tempo: perso, venduto, gettato il libro, e probabilmente anche abbandonato Sergio.

Passi per il fidanzato, ma come si fa a smarrire o gettare un libro???

Io, che leggo da quando ho imparato a farlo, e ho iniziato leggendo le insegne luminose dei negozi, che correvano lungo il percorso dell’auto dei miei genitori e non ho più smesso.

Io, che se non leggo sto male e quindi leggo sempre. Non posso pensare che qualcuno maltratti i libri.

A questa abitudine costruttiva ho aggiunto il piacere di scrivere. Scrivo poesie, racconti, sogni, liste della spesa che puntualmente dimentico a casa, e infinite liste di ‘cose da fare’ nel mio quotidiano, solo per poterle sovvertire e stravolgere ogni giorno.

Ho cacciato la signora delle pulizie perché avrebbe voluto gettare i libri già letti, che non trovavano posto nella libreria. Oggi ho una colf che compra i quotidiani, solo per foderare il top degli armadi e ripararli dalla polvere! Se non legge, quantomeno sostiene l’editoria pulendo! La cultura è qualcosa che ti permette di raggiungere qualcos’altro, non si può sottovalutare il potere della conoscenza.

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Leggere fa bene.

Conoscenza, consapevolezza, libertà, meno polvere e ragnatele, forse anche quelle che stanno nel cervello.

Ma torniamo a Sergio. Se lo avessi di fronte gli chiederei:

“Perché hai regalato un libro senza averlo mai letto? Scrivi che volente o nolente lei/lui avrà comunque a che fare con autori francesi, ma non ti sei posto il dubbio che magari la lettura del libro potesse creare disagio, fastidio, sofferenza? Un libro è qualcosa di talmente intimo, che come un profumo, non può essere scelto a caso. A scatola chiusa. Tranne che sia il lettore stesso ad imporsi un tale effetto sorpresa.”

Era Natale quando un’amica, mi regalò un libro, ricordo che non mi piacque, e che la lettura mi fece stare male per giorni, in quanto toccava il tasto dei ricordi, riportando alla memoria episodi, che avrei voluto cancellare per sempre. Per un periodo arrivai a pensare che quel libro era stato uno scherzo di cattivo gusto, scelto forse nell’intento di ferirmi. Pura cattiveria. In seguito minimizzai pensando ad un acquisto fatto con superficialità. Ancora oggi non so cosa sia peggio: la cattiveria o la superficialità.

Adesso #CercandoSergio, e trovarlo servirebbe a conoscere l’identità del destinatario della dedica.

Io intervisterei lei/lui e gli chiederei: “Anche tu, hai avuto l’impressione, che Sergio abbia riciclato un libro che aveva ricevuto a sua volta in regalo?”

Magari è stata proprio quella Carla, la collega di Lingue, quella che condivideva con lui le lezioni di francese. E invitandolo a studiare insieme, gli ha regalato “L’educazione sentimentale”, anche se avrebbe fatto meglio a regalargli un libro di anatomia o un manuale di Kamasutra. Lei era piuttosto audace, e lui decisamente impedito, sembrava che si dovesse ‘imboccarlo col cucchiaino’, aiutarlo a capire ciò che a tutti era evidente. O almeno questo era ciò che mostrava, tra lo sfigato e il bohemien (questa è l’immagine che mi sono costruita di lui, poi chissà…)

E  poi vorrei chiedere a Sergio:

“ma che dedica è questa?!? Dov’è la passione, e il romanticismo?”

E già lo immagino lì. Ancora con quell’aria da falso bohemien, di quello che della Francia in realtà amava solo le parigine, le donne parigine. Quelle con quel nasino da snob, che sniffano parfum tutto il giorno, perché dalla fabbrica di Grasse si diffondono per tutta la Francia, metropolitana inclusa.

Le donne che si vestono, escono la mattina e rientrano la sera tardi, sempre con gli stessi capi, ‘sbucciate’ strato dopo strato, dai vestiti, come dalla pesantezza degli oneri del giorno, dalle nuvole di pensieri e dai baci rubati ieri.

Lì Sergio ammetterebbe:

S.: – “Io avrei voluto, ma non ho trovato. Flaubert parlava di uno sfigato: Frédéric, sembra che se la sia spassata, ma in realtà è rimasto solo, a scartare disillusione, e a bere per ricordare. Ricordare i bei tempi, quelli in cui lui ci credeva. Credeva all’amore…”

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Vuoi dirmi che il destino di Frédéric somiglia al tuo?

S.: – “Ho acquistato il libro credendo di trovare qualche suggerimento importante sul modo di condurre la vita e il sentimento, ma dopo aver letto che lo stesso Flaubert lo definì ‘poco divertente’, ho smesso di leggerlo, aveva ragione. Si tratta di una raccolta di belle frasi ad effetto, di quelle che, o lei cede alla tentazione, o decide radicalmente di farsi monaca. Quello era il periodo ‘confuso’ non sapevo cosa fare. Un giorno mi piaceva Carla, un altro Giovanna e poi c’era Claudio, il nostro rapporto era fantastico, ma strano.”

 

 Solitamente in una dedica si scrive il nome del destinatario, A Carla, A Giovanna, A Claudio, e se non si vuol venire scoperti da occhi indiscreti si omette la firma, si usa uno pseudonimo, un vezzeggiativo, un’icona stilizzata, qualunque cosa possa identificarti ai soli occhi dell’interessato.

Sergio devo dirtelo: mi sembri un narcisista confuso. Uno di quelli che non sa a chi regalerà questo libro e nel dubbio usa “For You”. Scaltro stratagemma, devo ammetterlo.

A questo punto cosa hai fatto: hai lanciato in aria una monetina e hai fatto scegliere al caso?

S.: – “No. Come fai in fretta, tu, a sputare sentenze! L’ho regalato a una collega di cui non conoscevo il nome. Ci lanciavamo sguardi a lezione, durante Storia della letteratura francese, ma lei fuggiva tutte le volte che tentavo di raggiungerla e parlarle. Così un giorno le lasciai il libro di Flaubert, sul posto che solitamente occupava, sperando che trovandolo si persuadesse a fermarsi per conoscerci. Ma non è stato così. Non venne più a lezione, poi dopo qualche mese seppi, che aveva lasciato gli studi, ma nessuno sapeva come si chiamasse e dove trovarla. Non l’ho più rivista.”

Ti piacerebbe ritrovarla, oggi?

S.: – “No. Oggi sono felice così. C’è un tempo per ogni cosa.

Oggi preferisco il ricordo, all’abbaglio di un illusione.”

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Tante volte cerchiamo di scavare nell’animo altrui, per la curiosità di sapere, conoscere come sarebbe stato se, se solo il destino di quelle persone avesse girato per il verso giusto, o per il verso sbagliato, chissà. Quante volte da piccola riflettevo sulla opportunità di scegliere il finale di una storia. Scelta A o scelta B? Le conseguenze? Cercavano sempre di responsabilizzarmi i miei genitori. Non c’era azione che non richiedesse una valutazione preventiva delle conseguenze, dei rischi e pericoli che avrei corso, tanto che pensavo da grande sarei divenuta un perito assicurativo o qualcosa di simile, dopo tanto valutare le percentuali di rischio! Ancora oggi quando non riesco a decidermi su quale via imboccare al bivio della vita, prendo carta e penna e dividendo in due la pagina, valuto pro e contro di una scelta, e/o di una non scelta.

Dovremmo sempre valutare insieme ai rischi che comporta una scelta, il rischio che ne conseguirebbe a non scegliere affatto, e a restare inermi in attesa che, accada qualcosa, o che qualcuno operi una scelta al posto nostro.

Calcolare, valutare, riflettere, decidere, sono azioni che implicano l’intervento della ragione, dell’intelletto, del freddo calcolo della mente. Ma quando si tratta di sentimenti come bisogna comportarsi?…

Quando desideri ardentemente qualcosa tutto l’universo cospira con te, affinché accada.

Questo dialogo semiserio è totalmente frutto della mia immaginazione, l’intento è puramente ludico, non vuole recare offesa a nessuno dei soggetti direttamente o indirettamente coinvolti.

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P.s.: è più facile che vi presti il fidanzato, che un mio libro.

Fossi in voi, nel dubbio, non chiederei né l’uno né l’altro.

Sono gelosa!

(To be continued)

Di pianti, pericoli e polpette di patate!

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“La condizione umana è così ricca di dolori e gioie, che non si può affatto tenere il conto di ciò che una coppia di sposi debbano l’un l’altro. È un debito infinito, che può venir compensato solo con l’eternità. Alle volte può essere scomodo, lo credo bene, ed è  appunto giusto che sia così. Non siamo forse anche sposati con la nostra coscienza di cui spesso ci libereremmo volentieri, perchè è tanto più scomoda di quanto possano mai riuscirci molesti un marito o una moglie?” Goethe

Stamattina il risveglio è stato ancora più faticoso. Notte bianca. Magari fosse stata spesa per andare in giro per la città, tra i musei, specchiandosi per le vetrine dei negozi che superstiti sfidano la crisi. No.

Sono rimasta sveglia per via di Lorenzo. Ha piagnucolato tutta la notte e non riuscivamo a capire il perché.

Pulito il nasino, il pannolino. Poi goccine per il pancino, poi ruttino… interrompendo i suoi “mamm…mamma…maaa…” con ripetuti tentativi di dargli il ciuccio, addormentarlo passeggiando, il tutto con la collaborazione di un papà speciale: il mio partner collaborativo, per fortuna!

Sono stanca. E l’ho capito ancora di più quando mi sono resa conto di aver commesso un errore. Una mancanza.

Ci siamo. Anch’io sono umana. E qualche volta piango. Il pianto è catartico. Del resto apri i rubinetti per pulire qualcosa sotto il getto, e io piango anche per lavarmi l’anima, non solo davanti alle scene commoventi e alle cipolle.

Piango per cercare di lavar via gli errori. I miei limiti. Le macchie più ostinate sulla coscienza.

C’era una sola cosa a cui non ho riflettuto stanotte, e per questo tre soggetti non hanno dormito.

Il bambino aveva fame!

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Tale e quale a sua madre, ha sempre fame, e non ha smesso di mangiare alle tre di notte, neanche adesso che sta per compiere un anno!

Era intuibile, ma ero troppo stanca.

A nessuno piace fallire.

Per questo proliferano i sensi di colpa e di inadeguatezza, me ne vergogno un po’.

Adesso analizzando questa defaillance, posso dire che a parte il sonno e lo stress, non è successo nulla.

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Mio figlio cresce bene, è accudito, nutrito, allegro, giocherellone. Osservo i suoi progressi con meraviglia e mi nutro della gioia che mi regala.

Eppure per una mamma è facilissimo entrare in paranoia. Già perché non c’è peggio di essere coscienti di commettere un errore sull’altro!

Sento di aver ‘fallito’ e mi sento pure in colpa di essere umana, di avere dei limiti di resistenza.

Predico bene e razzolo male!

Io che ho sempre incoraggiato le amiche, le altre mamme, non sono utile a incoraggiare me stessa.

Mi sento sprofondare nel tunnel che lo stesso tubero scava per farsi spazio nella terra, appigliandosi alle radici. Adesso non fate ambigui paragoni con il tubero più famoso, per favore.

 

Perché mi sento una patata lessa, ridotta a purè e fritta. Una crocchetta. Dalla scorza croccante e morbida dentro.

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Per fortuna c’è sempre l’abbraccio dell’uomo che ho accanto. Il suo abbraccio è la mia terapia.

 

L’ho capito subito al primo appuntamento. Non ci siamo baciati. Mi ha chiesto di abbracciarci e mentre lo faceva mi diceva:

“tu non desideri avere un abbraccio dove rifugiarti? Un abbraccio da poter chiamare casa?”

A quell’appuntamento ho capito che avevo di fronte il pericolo.

Il pericolo di ricadere vittima dei miei desideri.

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Sì, perché tutte le donne vogliono credere di aver incontrato l’uomo giusto, quello che ti fa perdere la testa, che non ti fa capire più nulla, se sei sveglia o stai sognando. Se è tutto vero, o te lo sei inventato per la necessità di sopravvivere alla solitudine. Eppure capii, che io quel pericolo volevo correrlo e non mi importava più se correndo mi fossi sbucciata un ginocchio, il cuore o fratturata l’anima.

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Non mi importava nient’altro che stare insieme. Insieme.

Per avere quell’abbraccio che i gallesi chiamano “cwtch” una parola impronunciabile ma che definisce il gesto.

La stretta forte di due braccia che ti amano e che ti fanno sentire al sicuro. 

Come a casa. L’abbraccio dell’amore.

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Marzo: Ti fidi di me?

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E’ facile amare qualcun altro, ma amare ciò che sei, quella cosa che coincide con te, è esattamente come stringere a sé un ferro incandescente: ti brucia dentro, ed è un vero supplizio. Perciò amare in primo luogo qualcun altro è immancabilmente una fuga da tutti noi sperata, e goduta, quando ne siamo capaci. Ma alla fine i nodi verranno sempre al pettine: non puoi fuggire da te stesso per sempre, devi fare ritorno, ripresentarti per quell’esperimento, sapere se sei realmente in grado d’amare. E’ questa la domanda – sei capace d’amare te stesso?

Carl Gustav Jung

Sbuccio un mandarino, il primo che mangio dopo un inverno, forse sarà anche l’ultimo, per quest’anno. Mi ricordo quanti ne mangiavo da bambina. Facevamo a gara a chi ne aveva mangiati di più. La buccia si toglieva senza alcuna fatica, quasi restava integra mentre spicchio dopo spicchio ne mangiavo 3, 6, ma anche 10. Il succo fresco e dolce era irresistibile, così solo dopo un mal di pancia mi accorgevo che forse ne avevo mangiati troppi, forse i mandarini mi avevano fatto male.

Che poi mi chiedo ancora: come può una cosa buona farti male?

Credo che questa resti una delle domande esistenziali a cui non troverò risposta.

Mia nonna mi rispondeva: “ anche le cose buone se esageri ti fanno male”

Io non lo capivo e non la capirò forse mai. Resterà un mistero, come certe somme algebriche e problemi di geometria, che non ho mai capito e risolto.

A distanza di anni sono riuscita a sbucciare un mandarino, liberarlo dalla scorza e farlo sembrare ancora integro. Sembrare integri. Ecco come mi sento.

L’esterno integro e l’interno consumato. Forse anche nella forma somiglio alla scorza del mandarino: tonda e crepata.

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Febbraio è stato troppo faticoso. Tra stanchezza, baci, abbracci,  le gattonate insieme al mio piccolo, le incazzature per le notti in bianco e ancora gli articoli scritti per il giornale, mentre stavo appesa alle lancette e supplicavo inutilmente il tempo di non passare! Fortuna che è passato.

A febbraio ho trovato parecchie scuse per non mettermi a dieta: fa freddo, c’è san Valentino, i cioccolatini, carnevale, ho da fare e non posso star lì a pesare tutto… Sono una procrastinatrice seriale e speciale, nel senso che rinvio in continuazione e specialmente rinvio me stessa. Ogni giorno guardandomi allo specchio mi dico: “vediamo se oggi riesco a ritagliarmi un’oretta per occuparmi di me, facciamo che dopo il secondo caffè mi occupo di me”

Poi si fanno le 12, sono ancora in alto mare, c’è Lorenzo che reclama da mangiare, dunque mi rispondo:

“No, guardi ripassi un altro giorno, perché il Capo non c’è!”

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Non mento a me stessa.

Il Capo o ‘la capa’ non c’è. Non c’ho la testa, l’ho persa nella mole di cose da sbrigare!

Ad ogni modo il procrastinare ha sempre i giorni contati.

Prima o poi, arrivo a decidere di indossare la tutina da Wonder Woman e affrontare tutto.

Incluso il parrucchiere.

 “Dimmi cara, come li facciamo?”

Strani. Tanto diventeranno sempre strani, come quegli estranei che non sai come gestire. Pensa, che io farei come Claudia Gerini nel film Sono pazzo di Iris Blond.

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Io li taglierei da sola, così come viene, e comunque il taglio che ha lei nel film mi piace.

“Ho capito, ti faccio un taglio M’ama non m’ama…”

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…Guarda che San Valentino è passato. Trascorso bene, tra cuori, regali, fiori e cioccolatini!

“Lascia fare all’artista, fidati!”

Ecco una parola che la gente spreca più dell’acqua: fiducia.

 

Fidati!

Secondo me è l’invito più diffuso sulla faccia della terra. Quello che si dovrebbe declinare a prescindere, o quanto meno rinviare a data da definire.

Ma come si fa? Dopo tutte le badilate prese e quelle mai restituite?!

Ti fidi di me?

No, cioè Sì… Forse. Boh!

“Ricorda di non contraddire mai chi ha una forbice, un bisturi o un coltello dalla parte del manico”, mi sussurrava la saggezza.

Io che ho imparato a non fidarmi di me come faccio a fidarmi di un altro?

E il punto è proprio questo. Hai commesso un errore fondamentale: non credere in te stessa!

Chissà perché i parrucchieri, i migliori parrucchieri, ne sanno una più di Freud, secondo me invece di studiare “ segreti, acrobazie e pozioni magiche per capelli indomabili” divorano interi tomi e trattati di psicologia, altrimenti come si spiega il fatto che sembrino possedere doti da chiaroveggente?!

Ho sfoderato un brandello di coraggio, se non altro per dare un senso all’attesa e non perdere la faccia con mio figlio che aspettava paziente e curioso.

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E’ incredibile come tre figli e la routine risucchino tutta l’energia e qualunque barlume di ciò che eri prima. Come le notti insonni ti facciano dimenticare anche come ti chiami e chi sei. E’ incredibile presentarsi allo specchio e pretendere una risposta confortante quando le occhiaie arrivano alle pantofole.

Quando al mio: “… chi è la più bella del reame?”

Lo specchio fa scena muta e l’immagine riflessa sembra dirmi: chi sei tu? che vuoi da me?!  Ma vatti a fare una dormita, va!

Alla fine, non so se erano più lucidi i capelli o gli occhi. Luminosa e illuminata, lo specchio mi restituiva una me che mi piaceva. Ci siamo quasi. Quasi mi riconosco. Avevo dimenticato che il tempo per se stessi non va mai trascurato, perché di tutto l’amore di cui siamo in grado, quello per sé è il primo che va coltivato.

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Forse è tempo di seminare un po’ di fiducia, anche se marzo è pazzo. Crescerà insieme alle margherite, correrò il rischio di dover estirpare ortiche, di ridere con il sole e piangere sotto l’ombrello…

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“Tutta la varietà, tutta la delizia, tutta la bellezza della vita è composta d’ombra e di luce” Tolstoj

Sogni nel cassetto e calzini nel…

21422f2be6969f859970f24548d30302Il mio Pc vuole 5 minuti buoni per avviarsi mentre io nell’attesa cerco altrettante ragioni per cui farlo.
L’infelicità non esiste, è solo un’occasione camuffata da problema. Ripeto questa frase a me stessa, per darmi una motiv… azione <<‘nghueee!!! ‘nghueeee!!!!>>
E’ Lorenzo che strilla. Buongiorno mondo.
Si è appena svegliato. Che tempismo! Ha fatto prima che il pc! L’infelicità non esiste… calma. Respira. Magari adesso dopo una notte in bianco si riaddormenta.
Calma. Una parola, più facile a dirsi che a farsi. L’infelicità non esiste. Ho una lunga lista di cose da fare. Una vita che rimando da un giorno all’altro e le energie si son date latitanti per occultarsi chissà dove.
La felicità ha bisogno di idee chiare, di un significato appassionato e di una strategia efficace…
tu ce l’hai la strategia efficace? … le idee chiare?
Sei sulla buona strada! Come no! Ripeto a me stessa le frasi motivazionali di un libro di self help che ho iniziato e finito alla pagina successiva. Non sono riuscita ad andare oltre alla frase: “l’infelicità non esiste…” un po’ perché mi annoiava, un po’ perché Lorenzo piangeva.
Qui non si può stare a menarsela con la mindfullness o happiness che sia, lo yoga, il guru e compagnia bella!
Qui ci vogliono soluzioni express, immediate, forse è più utile un miracolo.

Sono 9 mesi che non dormo, più i precedenti 9 della gravidanza, praticamente 1 anno e mezzo di rincoglionimento ad oltranza, dove si tira avanti guardando il suo faccino paffuto che gorgheggia e che rincitrullisce chiunque, insieme a un “ ce la faremo” che rimbalza da me al mio amore e viceversa per cercare di non mollare.

“La vita è fatta di piccole felicità insignificanti, simili a minuscoli fiori. Non è fatta solo di grandi cose, come lo studio, l’amore, i matrimoni, i funerali. Ogni giorno succedono piccole cose da non riuscire a tenerle a mente né a contarle, e tra di esse si nascondono granelli di una felicità appena percepibile, che l’anima respira e grazie alla quale vive” .
Banana Yoshimoto “Un viaggio chiamato vita”

Suona il telefono, una soluzione trovata due giorni prima c’ha ripensato, ha preferito tornare ad essere un problema. Che culo! Quasi quasi era meglio non rispondere. Suona il citofono. Il ragazzo della consegna a domicilio. Almeno questa funziona. Ormai fa tutto da solo. Lo sa che sono super-iper-incasinata. Apro la porta e mentre io rispondo distrattamente a un’altra telefonata, quasi quasi lo trovo a impilare la spesa nella dispensa. Gente affabile il ciel l’aiuti! … L’infelicità non esiste.
E’ solo un’opportunità travestita da problema. In fondo ho già dimenticato quale sia il problema.
Toh! Un messaggio su WhatApp: Il grande che dovrebbe essere a scuola…
“ Mamma, per sbaglio mi sono portato un calzino di Matteo”
– “ come hai fatto a calzare la tg 36 visto che tu porti il 45???!”
“…Veramente io l’ho trovato dentro al mio berretto!”
Ecco che fine aveva fatto il calzino grigio di SpongeBob!

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Sorrido esasperata, perché la stanchezza ubriaca, almeno quanto un Mojito a digiuno.
E pensare che qualche anno fa facevo tardi per scelta. Studiavo, scrivevo, stiravo, o ballavo a notte fonda, mi bastavano 4 ore buone di sonno ininterrotto per gestire una moltitudine di oneri e passioni…
Passioni. Come quella che ho per i libri, da leggere e quelli che vorrei scrivere.
Passione. Fa rima con Afflizione. Sono stressata perché “vorrei, ma non posso”.
Non c’è tempo, non ci sono energie a sufficienza, la mente non risponde o è il corpo che è in
stand by? Boh. Non dormo perché sono il dispenser di latte materno di Lorenzo, nonché culla, nonché ciuccetto, insomma mamma 24/24, di tre figli maschi.
Che fine ha fatto la donna giovane e dinamica che ero?
Dei giovani ho solo i brufoli sul viso, tanto che l’altro giorno il farmacista sotto casa mi ha fermato dicendomi: “mia moglie ci teneva a farle provare queste creme, prenda pure questa busta di campioncini!”
Avrei voluto rispondere: “Grazie, nel frattempo ha mica un biglietto per Lourdes?”
Invece ho preferito nascondere l’avvampare del mio viso, fuggendo dentro al portone.

Ma quanto costa realizzare i propri sogni? Ma soprattutto chi paga? Possiamo fare ‘alla romana’?

Ripenso al calzino spaiato. Anche i calzini spaiati in un modo o nell’altro trovano un varco per oltrepassare il cassetto. Figuriamoci i sogni. Basta crederci!!!

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Mi sono innamorata di me, e senza risoluzione, per fortuna!

Metto l’acqua su per il tè come ogni mattina. Affaccio il naso fuori per guardare il tempo, l’estate sta per arrivare, il terrazzo è da ripulire, le mie unghie fanno pena come sempre, alla faccia del semigel, potrei travasare il basilico e fingere di essere la casalinga perfetta di una vita fa, ma lo farò più tardi.

La colazione è il pasto che mi prende più tempo, non tanto per la mole di cibo, mangio solo 8 biscotti integrali, ma tra il primo e l’ultimo ripasso la giornata precedente e compilo la lista del giorno appena iniziato. Già, stendo un daily planning al giorno solo per fare poi tutt’altro, così da sempre.

  1. Reperire i documenti per la dichiarazione dei redditi (detto così, sembra che abbia chissà quali cifre da dichiarare, ma stendiamo un velo pietoso)
  2. andare al CAAF
  3. controllare email
  4. sbirciare il saldo sul c/c
  5. passare dal supermercato (cosa mangeremo a pranzo? E a cena?)
  6. stirare i panni
  7. andare a quella riunione per redarre poi l’articolo…

A proposito vediamo cosa c’è sulle prime pagine dei quotidiani. Leggo dal supertelefonino ingrandito e …. Niente, le solite tristezze di cui abbiam piene le vite, le chiamano notizie.

Uno sguardo su face book, la cartina tornasole di un paese allo sbando, diamo il buongiorno agli amici, che se dimentico cominciano a tempestarmi in privato, chiedendomi se sto bene e perché non scrivo, (follower affezionati), approfittiamo per ricaricarci di autostima, postando una buona dose di ironia, utile per affrontare la giornata.

 

.azz! Sono già le 7.30, corro a svegliare i bambini! Il grande quasi quattordicenne come si usa al militare, dopo due chiamate invano, lo tiro giù dal letto di forza, per il piccolo di sette è sufficiente un “ cuoricino di mamma, è ora di andare a scuola!”

Comincia la corsa per arrivare in ritardo, la mia specialità. Ok, non esageriamo. Mi trucco dopo, infilo la trousse nella mia shopping bag, vestita impeccabile (degna figlia di una shopaholic!) non posso trascurare il viso, apro il freezer e tiro fuori un bicchiere per la vodka… tranquilli, non mi alcolizzo di primo mattino, lo tengo premuto sul viso in modo da cancellare le cuciture a doppia costa inglese, che il cuscino ha trasferito sul mio volto, di solito 10 secondi sono sufficienti a riattivare la circolazione.

Dove eravamo rimasti? Ci sono, seducente e femminile quanto basta, le tette rimpolpate al prezzo modico di un push-up, tacchi, agenda e via… fuori! Non ci posso credere! Solo 15 minuti di ritardo, per fortuna!

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A rottura di collo, arrivo a lasciare il piccolo a scuola, bacetto e sospiro. Francesca è già qui, come sempre lei è puntuale, non ha internet, il giornale lo legge in bagno, o al bar dopo, e mentre fa colazione ha già steso lo smalto sulle unghie, lei sì, che sa ottimizzare i tempi! Mi infilo nella sua auto, ormai complici da 3 anni, mi trucco dal sedile passeggero e facciamo un briefing sulle posizioni emotive, sentimentali, economiche delle nostre persone, nonché il resoconto sui rispettivi fidanzati. Subito dopo ci si rifà con il caffettino del bar, e una sigaretta guardando i cup cake da fuori la vetrina, per limitare i danni. Agenda sincronizzata, appuntamento telefonico alla fine del suo turno di lavoro. La mia amica lavora ancora nel callcenter dove ci siamo conosciute, io non più, per quanto sia difficile sbarcare il lunario, ho deciso che indosserò le cuffie solo per la musica, ho passato due anni e mezzo, intensi, sono cresciuta tanto, ho imparato tante cose, ho preso una quantità di vaffa…. Sufficienti anche per la vita nell’aldilà, ho incontrato gente, riso e pianto, ma nella vita, ogni tanto bisogna voltare pagina.

Come quando mi sono separata dal mio ex marito, l’uomo più importante della mia vita, finché non l’ho invitato a correre dall’amante e a togliersi dalle palle.

Ho un continuo bisogno di entusiasmo e di nuovi stimoli e con lui era uno svenarsi di energie soffocate dalla routine e dalla casalinghitudine , non esistono più gli uomini tutti d’un pezzo, colpa delle mamme chiocce, che hanno sacrificato la loro persona per servire marito e figli senza batter ciglio. Il risultato è una vita inappagata e figli immaturi.

Io non sono così , io sono per la cooperazione, non sono una mamma iper apprensiva, i genitori devono insegnare ai figli a cavarsela da soli, né sono una maniaca dell’ordine, in fondo ho i miei  buoni motivi. Metti che arrivino i ladri, devono impegnarsi a mettere in ordine prima di trafugare  qualcosa. E poi cosa dovrebbero portare via? Il pezzo migliore (figli a parte) cammina con me, non parlo del corpo, minuto e modesto, quanto dell’anima e della mia testa.

Come diceva la mia preside alle scuole superiori:  “la cultura e l’intelligenza sono qualcosa che nessuno potrà mai sottrarvi, sempre che l’abbiate acquisita.” Già perché nell’era del 2.0 si può scegliere solo di restare ignoranti, che nell’incoscienza si vive più quieti , ma se hai un pizzico di materia grigia, non puoi non essere una spugna pronta a recepire impulsi e stimoli e a imparare non solo come sopravvivere, ma anche a essere migliore, ad apprezzare e a preservare la bellezza.

Ci risiamo, son caduta nel tasto dolente, la bellezza è soggettiva, si dice, secondo me risiede nell’armonia delle cose, del creato e non certo nel mio vicino di casa, che continua a chiedermi di uscire insieme.

Io sono una donna esigente, ma non di cose materiali, lussi e sfarzi, bensì di acume intellettuale, cosa ormai rara, dunque i corteggiatori con me hanno vita breve, anzi brevissima, giusto il tempo di ridere delle banalità che dicono o fanno.

Intendiamoci, credo ancora nella vita di coppia, ma con la variante che ognuno risieda a casa propria. Ho bisogno dei miei tempi e dei miei spazi, può capitare che nel cuore della notte mi venga l’ispirazione per scrivere o dipingere, oppure che debba assistere un figlio con la febbre o un’amica in lacrime per il fidanzato, o ancora presa dal senso del dovere,  debba stirare l’ultima pila di panni, e a qualunque ora raggiunga il letto c’è sempre la battuta di Rossella che mi echeggia nella testa: “domani è un altro giorno!”

Nella mia vita precedente avevo l’ansia della moglie perfetta, e l’ho sfiorata di molto,  qualcosa tipo pasta fresca fatta in casa, conserve, dolci, liquori, ricamo, decoupage, pittura, fiori sul terrazzo e frate indovino appeso sul muro. Questo finché il mio ex non si scoprì invaghito di una donna inetta e insignificante, di dieci anni più grande di me, viste le qualità doveva essere per forza amore, o al massimo una storia di sesso stellare. Comunque decisi di riconquistare la mia vita, tagliai i capelli corti e ne feci un punto di forza, Monnalisa era stata seppellita, tornai a credere nel mio sogno: scrivere. Oggi collaboro per un paio di testate on line, sto imparando a impaginare la mia vita insieme ai miei figli e non smetto di cercare nuovi equilibri, c’è sempre un amore per cui struggersi, in fondo è il motore della vita, ma ho imparato che dopo i bisogni primari dei miei pargoli ci sono io. Mi sono innamorata di me, e senza risoluzione, per fortuna!

 

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