Discorso sulle donne – Natalia Ginzburg

Una tazza di tè e quattro chiacchiere con un’amica, un’amica che riconosce in altre donne una specie di ‘sorellanza’, quell’empatia che ti fa tendere la mano verso l’altra e dire: “afferra la mia mano, che usciamo da questo maledetto pozzo!”, ha cambiato il mio stato d’animo.

E così un pomeriggio che si prospettava carico di frivolezze, paure, paranoie, racconti di donne, mi ha regalato questo stralcio letterario di consapevolezza, e quando conosci il problema sei già più vicino alla soluzione.

Il problema è che noi donne abbiamo spesso il brutto vizio di cadere in un pozzo, un tunnel fatto di paure, di inadeguatezza, di fragilità. E non è facile tirarsene fuori, perché anche dopo, come recidive ci ricadiamo dentro… E allora? Leggete questo articolo scritto dalla Ginzburg e provate ad abbandonare questa attrazione per l’abisso che ci porta a rotolare verso il fondo e ad autocommiserarci per gran parte dei nostri giorni.

Buona lettura!

“L’altro giorno m’è capitato fra le mani un articolo che avevo scritto subito dopo la liberazione e ci sono rimasta un po’ male. Era piuttosto stupido: quel mio articolo parlava delle donne in genere, e diceva delle cose che si sanno, diceva che le donne non sono poi tanto peggio degli uomini e possono fare anche loro qualcosa di buono se ci si mettono, se la società le aiuta, e così via. Ma era stupido perché non mi curavo di vedere come le donne erano davvero: le donne di cui parlavo allora erano donne inventate, niente affatto simili a me o alle donne che m’è successo di incontrare nella mia vita; così come ne parlavo pareva facilissimo tirarle fuori dalla schiavitù e farne degli esseri liberi. E invece avevo tralasciato di dire una cosa molto importante: che le donne hanno la cattiva abitudine di cascare ogni tanto in un pozzo, di lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro, e annaspare per tornare a galla: questo è il vero guaio delle donne.

Le donne spesso si vergognano d’avere questo guaio, e fingono di non avere guai e di essere energiche e libere, e camminano a passi fermi per le strade con bei vestiti e bocche dipinte e un’aria volitiva e sprezzante (…) M’è successo di scoprire proprio nelle donne più energiche e sprezzanti qualcosa che mi indiceva a commiserarle e che capivo molto bene perché ho anch’io la stessa sofferenza da tanti anni e soltanto da poco tempo ho capito che proviene dal fatto che sono una donna e che mi sarà difficile liberarmene mai.

Ho conosciuto moltissime donne, donne tranquille e donne non tranquille, ma nel pozzo ci cascano anche le donne tranquille: tutte cascano nel pozzo ogni tanto. Ho conosciuto donne che si trovano molto brutte e donne che si trovano molto belle, donne che riescono a girare i paesi e donne che non ci riescono, donne che hanno mal di testa ogni tanto e donne che non hanno mai mal di testa, donne che hanno tanti bei fazzoletti e donne che non hanno mai fazzoletti o se li hanno li perdono, donne che hanno paura d’essere troppo grasse e donne che hanno paura d’essere troppo magre, donne che zappano tutto il giorno in un campo e donne che spezzano la legna sul ginocchio e accendono il fuoco e fanno la polenta e cullano il bambino e lo allattano e donne che s’annoiano a morte e frequentano corsi di storia delle religioni e donne che s’annoiano a morte e portano il cane a passeggio e donne che s’annoiano a morte e tormentano chi hanno sottomano, e donne che escono il mattino con le mani viola dal freddo e una sciarpetta intorno al collo e donne che escono al mattino muovendo il sedere e specchiandosi nelle vetrine e donne che hanno perso l’impiego e si siedono a mangiare un panino su una panchina del giardino della stazione e donne che sono state piantate da un uomo e si siedono su una panchina del giardino della stazione e s’incipriano un po’ la faccia.

Ho conosciuto moltissime donne, e adesso sono certa di trovare in loro dopo un poco qualcosa che è degno di commiserazione, un guaio tenuto più o meno segreto, più o meno grosso: la tendenza a cascare nel pozzo e trovarci una possibilità di sofferenza sconfinata che gli uomini non conoscono forse perché sono più forti di salute o più in gamba a dimenticare se stessi e a identificarsi con lavoro che fanno, più sicuri di sé e più padroni del proprio corpo e della propria vita e più liberi. Le donne incominciano nell’adolescenza a soffrire e a piangere in segreto nelle loro stanze, piangono per via del loro naso o della loro bocca o di qualche parte del loro corpo che trovano che non va bene , o piangono perché pensano che nessuno le amerà mai o piangono perché hanno paura di essere stupide o perché hanno pochi vestiti; queste sono le ragioni che danno a loro stesse ma sono in fondo solo dei pretesti e in verità piangono perché sono cascate nel pozzo e capiscono che ci cascheranno spesso nella loro vita e questo renderà loro difficile combinare qualcosa di serio.

Le donne pensano molto a loro stesse e ci pensano in modo doloroso e febbrile che è sconosciuto a un uomo. Le donne hanno dei figli, e quando hanno il primo bambino comincia in loro una specie di tristezza che è fatta di fatica e di paura e c’è sempre anche nelle donne più sane e tranquille. E’ la paura che il bambino si ammali o è la paura di non avere denaro abbastanza per comprare tutto quello che serve al bambino, o è la paura d’avere il latte troppo grasso o d’avere il latte troppo liquido, è il senso di non poter più girare tanto i paesi se prima si faceva o è il senso di non potersi più occupare di politica o è il senso di non poter più scrivere o di non poter più dipingere come prima o di non poter più fare delle ascensioni in montagna per via del bambino, è il senso di non poter disporre della propria vita , è l’affanno di doversi difendere dalla malattia e dalla morte perché la salute e la vita della donna è necessaria al suo bambino.(…) Le donne sono una stirpe disgraziata e infelice con tanti secoli di schiavitù sulle spalle e quello che dovono fare è difendersi dalla loro malsana abitudine di cascare nel pozzo ogni tanto, perchè un essere libero non casca quasi mai nel pozzo e non pensa così sempre a se stesso ma si occupa di tutte le cose importanti e serie che ci sono al mondo e si occupa di se stesso soltanto per sforzarsi di essere ogni giorno più libero. Così devo imparare a fare anch’io per la prima perchè se no certo non potrò combinare niente di serio e il mondo non andrà mai avanti bene finchè sarà così popolato d’una schiera di esseri non liberi.”

Natalia Ginzburg, Discorso sulle donne, in Tuttestorie n. 6/7 dicembre 1992

Vite Storte – Nunzia Scalzo

A tratti ho parteggiato per le vittime, a tratti per i carnefici.

Una raccolta di omicidi e fatti di sangue avvenuti in Sicilia nel secolo scorso, alcuni risolti e altri no. Racconti a metà tra la cronaca giornalistica e la storia in cui le protagoniste -vittime o carnefici- sono le donne. Un libro femminile ma non femminista, dove gli sconti non sono contemplati.

Difficile non immedesimarsi, le vittime conducevano apparentemente vite normali, e pensare che questa normalità sfocia poi in una tragedia è agghiacciante, ti mette di fronte alla consapevolezza che di normale nella vita può non esserci nulla, perché la patologia psichica è solo ben camuffata.
“Le femmine sono tutte puttane” l’insulto atavico che ci portiamo come dote scomoda, ma affascinante al tempo stesso è il filo conduttore di queste vite spezzate. Vuoi o non vuoi, in qualsiasi caso, è colpa della femmina. Vittima a volte, ma a volte anche astuta e subdola, che dell’appellativo scomodo se ne fa un vanto e come un dato di fatto ascisce e reagisce di conseguenza.
Il libro evidenzia come l’articolo 587 C.P. sia stato largamente evocato per uscire indenni dalle condanne per omicidio, anche quando il giustiziere aveva comunque premeditato e organizzato tutto ad arte.

Il testo è scorrevole e le storie intriganti.

“Ti commiseravo, mi facevi tenerezza, forse un po’ pena, eri sempre solo, triste, silenzioso, sempre in disparte, non defilato ma emarginato dagli altri, o forse autoemarginato. Non eri cattivo, non l’ho mai pensato. Mi sembravi solo uno sfigato”. (Dal diario di Emma Pinto Cammarata).

Commovente la chiusura. Una relazione con le cose, gli abiti, gli oggetti appartenuti alla vittima, è più stabile che con l’amata. Siamo nell’era di IoT (Internet delle cose) gli oggetti e gli elettrodomestici sono robotizzati e possono parlare a distanza con il padrone di casa, siamo all’avanguardia per le scoperte tecnologiche, ma non sappiamo ancora dialogare con le persone, non sappiamo vedere oltre il nostro “Io”, che prepotente chiede soddisfazione e ‘giustizia’.

Tanta tristezza nel prendere atto che dal secolo scorso ad oggi non sia cambiato nulla, che il 587 CP si chiami adesso “femminicidio per attacco di gelosia” e che sul piano educativo e comunicativo con l’altro sesso restiamo arenati.
Complimenti all’autrice Nunzia Scalzo per aver condiviso attraverso le sue parole queste “Vite Storte” e oltraggiate.

Titolo: “Vite Storte”

Autore: Nunzia Scalzo

A&B editrice

Prezzo di copertina 12 €

Brave persone

Secondo quanto si e’ appreso, la coppia non era in fase di separazione, ma viveva momenti di “frizione” alternati a riappacificazioni.
(http://www.strettoweb.com/foto/2019/03/femminicidio-donna-morta-messina-napoli/812689/#MPlomLvw5FUwh5OL.99)

Due donne del Sud sono state uccise ieri dai rispettivi compagni, una a Napoli 36 enne madre di tre figli e l’altra a Messina di appena 28 anni. Quest’ultima dopo l’ennesima lite grave con il compagno, avrebbe deciso di bloccarlo su Whatsapp e lasciarlo, ma lui non era d’accordo e dopo averla picchiata selvaggiamente l’ha lasciata morta accanto al letto ed ha cercato di depistare i sospetti per fare ricadere la colpa su un altro ex fidanzato della vittima.

A poche ore di quello che è stato fissato come il giorno per celebrare la donna, la sua forza, la sua virtù, la lotta contro i soprusi, gli abusi, le violenze di ogni genere, giungono queste ed altre notizie non meno gravi, che fanno rabbrividire chi le legge.

Dove stiamo andando? Chi abbiamo intorno a noi? C’è qualcuno capace di controllare la propria forza e la cattiveria? Si può accettare una reazione esagerata ed incontenibile con l’alibi della gelosia? Si può accettare che un risarcimento per danni morali riscatti la libertà, riducendo la pena già di per sé incerta, per consentire ad un violento di continuare a vivere, mentre la vittima si rivolta nella tomba ed i familiari hanno perso fiducia nella giustizia?

Esiste davvero una giustizia, che non sia quella divina, esiste una tutela per chi donna, bambino o qualsiasi persona debole viene molestata, vessata, aggredita o uccisa?

Quand’ero bambina credevo fermamente che Dio non avrebbe dovuto permettere queste violenze, le monache sostenevano che anche il male è un progetto di Dio e che noi non possiamo essere a conoscenza del perché accadono tante cose brutte.

Crescendo non ho avuto dubbi, probabilmente questo Dio non è dei nostri, non è una donna e non gli va sempre di far miracoli…

Pensavo che potesse almeno esserci una giustizia terrena, qualcuno che rimettesse a posto la tara e decidesse di riequilibrare questo caos che ogni giorno viviamo, ma le mie speranze sono state disattese tutte le volte che “la pena è stata ridotta perché” il reato era frutto di un “raptus di temporanea follia” o gelosia, “in fondo l’amava”, che il Santone di Lavinia è stato scarcerato perché la testimonianza di 6 minorenni e diverse prove inconfutabili non sono poi così affidabili o gravi da giustificare il carcere ad un porco settantenne obeso…

La società denuncia l’abuso, ma ci convive serenamente se non toccano i propri cari, in fondo siamo tutte brave persone…

Se non muori nessuno si accorge che hai bisogno di aiuto, siamo come quegli artisti il cui successo e notorietà arriva post mortem..

Siamo così tanto tutti “brave persone” che alla fine questo schifo di notizie non si sa perché e da chi arrivi.

Siamo bravissimi a parlare di diritti, pari opportunità, tutele, e poi diamo a Pillon la possibilità di emanare il “decreto medioevo”, quello che ci riporta ai tempi della caccia alle streghe, alla donna sottomessa e costretta a figliare come fosse un animale domestico da riproduzione, e se poi il marito si stanca può decidere di permutarla con una più in forma, ed uscire indenne da un possibile risarcimento o assegno di mantenimento, che già deve contribuire a mantenere i figli, e poi è ora di finirla con questa speculazione! Le donne si sa, di un euro ne fanno quattro, sono brave con il moltiplicatore del reddito e questa speculazione camuffata deve finire! Se vuoi campare trovati un lavoro, se non lo trovi prostituisciti pure, che poi ti togliamo i figli perché sei una madre indegna e degenerata, non indigente, ma degenerata.

Come si dice? “Cornuta e mazziata” così devi essere, se vuoi essere una donna viva, o che sopravviva. Sono troppo disgustata dalla realtà, questo post non potrebbe mai essere usato per la pubblicazione su una testata, dove si richiede obiettività e di essere super partes. Ma che ci posso fare? Sono troppo donna, e come tale sensibile a certe problematiche… Ma poi perché scrivo? Perché ho questa passione per il giornalismo? No. Non è una sindrome da voyerista è solo che, questo è il mio personale modo per esorcizzare quest’orrore, questo è il mio modo di rendere onore e omaggio alle vittime, questo è il mio modo di avvicinarmi alla giustizia.

Scrivere è il modo per farsi leggere, e per dire che dobbiamo assolutamente avere la forza di dire no alla violenza, che dobbiamo avere fiducia nella giustizia che prima o poi, da qui o da lassù, qualcuno si accorgerà di quanto male ci è stato fatto, che intanto dobbiamo denunciare per poterci tutelare, difendere, che dobbiamo sensibilizzare ed educare i nostri figli, ma anche gli altri ad avere la consapevolezza e la cultura per capire come si generano certi sentimenti e come vanno gestiti. Abbiamo tanto da imparare e gli auguri servono proprio a questo, ad andare avanti con coraggio e vivere! Auguri Donne!

Magari domani resto – Lorenzo Marone

“Se per femmina vera si intende una che non accetta di farsi mettere i piedi in testa e lotta per sé e per i suoi cari, allora sì, sono una femmina vera”

Titolo : Magari domani resto
Autore : Lorenzo Marone
Categoria: Narrativa Italiana
Casa editrice: Feltrinelli
Anno di pubblicazione: 2017

Luce Di Notte è una trentacinquenne napoletana, residente nei Quartieri Spagnoli, cuore storico della città. Luce è un avvocato con tante ambizioni, con i capelli corti, un fisico asciutto, ma con quel ‘je ne sais quoi’, che sa di sensuale. Luce mostra un carattere forte e determinato, forgiato dalle avversità che ha dovuto affrontare fin dall’infanzia. La sua autostima vacilla, ma mostra una sua sicurezza dovuta al fatto d’esser stata costretta, fin da piccola, a rinunciare all’affetto del padre che è andato via, abbandonando la famiglia e della madre troppo impegnata a lavorare come sarta per tirar su due figli.

“Dannata mamma, che ha speso una vita a insegnarmi la buona educazione, la morale e l’importanza di avere una cultura, e s’è scurdata di spiegarmi che senza un po’ di sana autostima l’educazione e la cultura servono a poco.”

Mamma aveva cresciuto lei e il fratello con l’aiuto della nonna anche se le due donne parevano, per motivi a Luce sconosciuti, non andare molto d’accordo.

“La mia vita è da sempre un percorso a ostacoli su una strada lastricata di sampietrini che alle prime piogge scoppiano come tanti popcorn, che se stessimo in un paese normale, in un mondo normale, i buchi sarebbero tappati subito, perché è da sempre istinto dell’uomo cercare di colmare i vuoti. E, invece, qui i buchi non si chiudono, e sei costretto a scansarli, e così impari la regola base di questo luogo a dir poco unico: e cioè che nessuno camminerà un passo davanti a te per sigillare le voragini che ti si presenteranno sul cammino, dovrai essere tu a saperle scansare, una dopo l’altra. E se pure alla fine dovessi finirci dentro, fa niente, perché, in ogni caso, tramite un sampietrino saltato, la vita ti ha insegnato non tanto a schivare i fossi, quanto a saper ammortizzare la botta.”

Dopo la laurea trova un piccolo impiego presso uno studio legale, che di legale sembra avere ben poco, un lavoro che permette alla protagonista di andare a vivere da sola, convivere con un “miserabile“, che impaurito dalle prospettive di crearsi una famiglia, oltre che immaturo, fugge in Thailandia.
Luce resta a vivere in un appartamento da sola, il fratello si è trasferito al Nord, e fra Luce e sua madre vi è un’incompatibilità, Mamma infatti è una donna molto dedita al sacrificio, persino un po’ bigotta con tutte quelle idee di far la sagrestana e la catechista. Invece Luce si sposta in Vespa per respirare aria di libertà e s’accompagna a chi più le piace, primo fra tutti Alleria o Cane Superiore, un incrocio di più razze salvato da morte certa dopo essere stato gettato in un cassonetto dell’immondizia.
L’arrivo dell’amico a quattro zampe nella vita di Luce dà inizio ad una serie di eventi e incontri. Nuove presenze e nuove amicizie danno uno scossone alla corazza della donna e ne permeano l’armatura di sentimenti seppelliti e ignorati per troppo tempo.

“Quei lividi oggi mi costringono a essere come sono. Perché purtroppo possiamo donare agli altri unicamente ciò che abbiamo ricevuto, e chi ha avuto solo ’nu muorzo’ non ha anche voglia di star lì a fare lo schizzinoso, e allora scaraventa sul tavolo tutto il puculillo messo da parte, senza fare distinzioni fra bello e brutto. Che piaccia o meno.”

Tutte le vicende si dipanano attorno a lei, ruotano personaggi con caratteristiche ben delineate, con sentimenti positivi e non.

Prima fra tutte c’è la figura d’un vecchietto dall’animo vivace, ma dalle gambe non più abili, Don Vittorio, il vicino di casa con cui la protagonista accetta di dividere i pasti e qualche ora della giornata e poi, l’incontro con Carmen Bonavita e Kevin, rispettivamente madre e figlio, le persone che lei dovrebbe, per lavoro, spiare.

Il suo capo l’avvocato Geronimo si aspetta, viste le richieste del cliente assai danaroso, che Luce trovi in Carmen una prova, per accusarla di essere una cattiva madre e sottrarle il figlio in favore dell’ex marito. Una serie di eventi che non vi svelo per non togliervi il piacere di leggere il libro, ma che intrigano e tengono attaccati al testo per la curiosità.
Il libro è scorrevole, uno stile semplice, l’autore ricorre spesso a termini del lessico dialettale che rendono meglio l’idea del vivere nel napoletano, e a tratti sembra di essere dentro i quartieri spagnoli e di essere parte della storia.
Le caratteristiche locali negative vengono solo tratteggiate e l’accenno alla camorra e alle famiglie camorristiche non appesantisce l’atmosfera, in alcuni momenti Marone lascia al lettore il piacere della suspense per sorprenderlo in finale.

Tanti sentimenti palesi, ma tanti nascosti per pudore e tante le verità che vengono a galla durante la lettura.
Una famiglia “sgarrupata” che torna a guardare il futuro con speranza, oltre che con malinconia. Luce è una donna come tante, eppur straordinaria allo stesso tempo, e accanto a lei Don Vittorio, tanto saggio e attraverso il quale Lorenzo Marone esprime la sua filosofia di vita che va dritta al cuore.

“Mi dispiace contraddirti, ma non credo che siamo solo quello che abbiamo vissuto. Il nostro trascorso può intaccarci fino a un certo punto, ma c’è una parte che resta sempre integra, sempre nuova, pronta a ripartire e a indicarci altre strade. È dentro ognuno di noi, anche se molti nemmeno sanno di possederla, e sta li in attesa di essere utilizzata per qualcosa di straordinario”

“Abbiamo bisogno di conservare un po’ del nostro percorso infantile, anche solo un ricordo che ci aiuti a trasformare la realtà in qualcosa di più romantico e colorato. Alcuni, ogni tanto, ci riescono, molti, invece, nemmeno ci provano. Solo pochissimi ne fanno una ragione di vita: sono i sognatori, quelli che la gente chiama pazzi.”

 Eleanor Oliphant sta benissimo – Gail Honeyman

Titolo: Eleanor Oliphant sta benissimo
Autore: Gail Honeyman
Data di pubbl.: 2018
Casa Editrice: Garzanti
Genere: narrativa contemporanea
Traduttore: S. Beretta
Pagine: 352
Prezzo: 17,90 €

Oppure

Audiolibri Salani

Tempo di ascolto: 10 ore 12 minuti e 58 secondi

Prezzo: solo il costo dell’abbonamento mensile ad Audible

Ultimamente ho trovato una soluzione per leggere e non trascurare altre cose noiose che non richiedono molta attenzione, in modo da mettere a tacere qualunque senso di colpa: ho scoperto gli audiolibri! Grazie ad Amazon Prime e all’applicazione Audible.

Ascolto una bella voce che legge per me, mentre cucino o mentre stiro i panni, o ancora, prima di chiudere gli occhi la sera come una fiaba della buonanotte… per contro, mi perdo il piacere compulsivo di sottolineare i passi più interessanti e l’odore tipico che sprigionano le pagine di cellulosa misto al collante per rilegarle e la soddisfazione di riporre nella mia libreria un altro volume appena letto.

Ahimè…! C’è sempre un prezzo da pagare, delle rinunce da fare o dei compromessi per andare avanti nella vita.

Così in poco più di 10 ore, con diverse pause purtroppo, ho letto, anzi ascoltato Eleanor Oliphant…

“Mi chiamo Eleanor Oliphant e sto bene, anzi: sto benissimo. Non bado agli altri. So che spesso mi fissano, sussurrano, girano la testa quando passo. Forse è perché io dico sempre quello che penso. Ma io sorrido.”

Eleanor Oliphant è una trentenne che lavora come contabile in un’agenzia di graphic design a Glasgow.

Una ragazza solitaria, una vita fatta di abitudini monotone, con abiti semplici e ordinari, antiestetiche scarpe comode, stesso menù e abitudini alimentari.

Conservatrice e abitudinaria per difesa. Le sue giornate sono scandite dalle solite cose che tengono il mondo fuori e lontano dalla sua vita.

In ufficio non chiacchiera coi colleghi, passa la pausa pranzo con un sandwich e le parole crociate, non ha mai chiesto un giorno di ferie, stacanovista per necessità, infatti al rientro a casa, la sera, l’aspetta solo la pianta Polly, e la variante di due bottiglie di Vodka nei week end. Eppure, se qualcuno le chiedesse come sta, risponderebbe che lei sta bene, anzi benissimo.

Rendersi anonima per passare inosservata è questo ciò che Eleanor desidera e cerca di realizzare ogni giorno, e se non fosse per la vistosa cicatrice che ha sul volto, probabilmente non la noterebbe nessuno.

Fino al giorno in cui, inaspettatamente, un collega la tratta con gentilezza, e pian piano si insedia nella sua vita, facendole scoprire un mondo nuovo, un calore che non conosce fatto di strette di mano, pacche sulle spalle, amicizia incondizionata. Sentimenti che Eleanor non ha mai conosciuto saltando da una famiglia affidataria all’altra, calore che non riceve attraverso la telefonata del mercoledì della madre in prigione.

“Ecco che cosa provavo: il peso caldo delle sue mani su di me; la sincerità del suo sorriso; il calore delicato di qualcosa che si apriva, nello stesso modo in cui i fiori si schiudono la mattina alla vista del sole. Sapevo che cosa stava accadendo. Era la parte priva di cicatrici del mio cuore. Era abbastanza estesa da lasciare entrare un po’ di affetto. C’era ancora un minuscolo spazio libero”.

Eleanor è un personaggio complesso. Da un lato disadattata, inesperta e impreparata alle relazioni sociali e umane, dall’altro sensibile, piena di acume, ironia che la rendono unica. Le sue opinioni senza filtri (dico sempre quel che penso), la rendono antipatica ai colleghi ma divertente per i lettori. Perché in fondo ciascuno di noi ha un lato oscuro fatto di desiderio di solitudine, ribellione verso le etichette e i cliché che ci impone la società, e poi Eleanor è giustificata, il suo non è un ottimo alibi. Lei ha sofferto davvero, e solo un amico come Raymond si è accorto di quanto amore avesse bisogno e di quante cure le siano mancate, fino a che insieme troveranno il coraggio di riscoprire il passato per superare i traumi.

L’amicizia ha il potere di salvarci, di rendere migliore la nostra vita, ed Eleanor vuole essere salvata, un’altra volta dopo quel giorno dell’incendio.

Eleanor Oliphant sta benissimo, è l’esordio letterario della scozzese Gail Honeyman tanto osannato e criticato.
Ho apprezzato davvero molto questo libro, il personaggio di Eleanor, la delicatezza e la naturalezza con la quale vengono affrontati temi forti, ma anche lo stile limpido e scorrevole che permette l’introspezione. Una storia accattivante, capace di commuovere, emozionare e divertire, ma soprattutto di far emergere qualcosa che spesso diamo per scontato: il valore dell’amicizia e dei legami.

Ve lo consiglio!

La Piccola Parigi

Recensione di Anna Agata Mazzeo

Una città, un racconto misterioso e una bambina di cui nessuno ha mai saputo il nome. Ecco cosa si cela dietro Cabiate e il suo essere chiamata dai suoi abitanti “Piccola Parigi”, per un motivo che però nessuno sembra ricordare. Forse solo il nonno di Chiara ha, nascosta nel suo passato, la chiave per svelare la natura di questo incantesimo che ora, forse, sta per essere finalmente rivelato.

Le grandi cose servono solo a dare valore a quelle più piccole

Una storia magica, una trama originale e affascinante che si sviluppa in appena 60 pagine. Scritto in modo scorrevole, Alessandro Tonoli ha tenuto a precisare che la punteggiatura segue il naturale flusso del parlato affinché la comprensione sia più immediata. Scelta che ho apprezzato e che condivido.

Sono stata invitata da Alessandro a leggere questo libro… Sinceramente era già nella mia wish-list, ma lui non lo sapeva. Come si fa a rinunciare alla lettura e soprattutto, come si fa a dir di no a “La Piccola Parigi”? Ecco se voi la conosceste, sapreste che, non è possibile negarsi a lei e dunque alla lettura di questo libro.

“Aveva due occhi grandi, azzurri vitrei, dietro i quali tutti quelli che ci parlavano erano soliti dire che nascondesse molte cose. Non cose brutte sia chiaro. Erano solamente pieni di… come dire… pieni di meraviglia, ecco! E quando ce l’hai negli occhi, beh, è come un gigantesco scrigno da cui tutti possono prendere un qualcosa anche se tu non vuoi. La meraviglia è una delle cose più difficili da tenere solo per sé. E per quanto tu possa provare a nasconderla, vedrai che un pizzico te ne salterà sempre fuori!”

È la storia di una bambina che sconvolge e trasforma la vita degli abitanti di Cabiate, è adatta a tutti, soprattutto a quelli che hanno dimenticato la spontaneità dei fanciulli e con la maturità hanno dimenticato cosa vuol dire sognare, sperare…

Potrei star qui a spoilerarvi l’intero libro, ma non voglio che vi perdiate il piacere della più piccola emozione. C’è tanto con cui potersi identificare: amore, sorpresa, dolore, separazione, speranza e tanta voglia di realizzare un sogno. Chiunque incontri la Piccola Parigi verrà cambiato, guarderà il mondo in modo diverso, vedrà la determinazione nel portare avanti un sogno con amore e vedrà diffondere questi sentimenti attorno a sé.

“Tutti vorremmo essere chiamati per i nostri sogni. Ci gireremmo per strada molto velocemente, fidati. Sono i nostri sogni che ci identificano, non i nostri nomi.”

Breve, ma intenso e alla fine c’è scappata la lacrimuccia. Fossi un regista ne farei un film per replicare e divulgare ancora questa piccola magia che è “la Piccola Parigi”. Leggetelo!

La piccola Parigi

di Alessandro Tonoli

60 pagine

GWMAX, 2015

Boccamurata – Simonetta Agnello Hornby

Boccamurata è l’ultimo libro della trilogia di romanzi ambientati in Sicilia, che hanno inaugurato in modo brillante la carriera letteraria di Simonetta Agnello Hornby.

In Boccamurata la protagonista è la zia Rachele. Nelle prime pagine, questa figura sembra marginale, solitaria, quasi triste, ma nella seconda parte del romanzo, l’autrice svela in maniera magistrale come tale condizione di sofferenza sia la spiegazione della sua esistenza e di quella di coloro che la circondano. Tito è senz’altro il protagonista che conduce se stesso e il lettore a una consapevolezza illuminante e chiarificatrice della sua vita e delle vicissitudini della sua famiglia. La Sicilia, la Famiglia, l’Amore, le Tradizioni costituiscono il filo conduttore che accomuna i primi 3 romanzi insieme a La zia marchesa e a La Mennulara.

Intriso di mistero ma anche di segreti svelati.

La storia ruota attorno alla famiglia di Tito, che passa dalla tranquilla routine ad un’atmosfera fatta di rivalità e sospetto.
L’arrivo di Dante, il figlio di un’amica della zia Rachele, crea scompiglio, ma al tempo stesso fa luce sul mistero legato alla madre di Tito. Chi era? Una donnaccia come le malelingue sparlano o una donna perbene, come gli ha sempre riferito il padre per tutta la sua infanzia?
La zia Rachele che non ha mai voluto prendere marito ed è rimasta ad accudire il fratello – padre di Tito – conosce la verità, ma a causa della vecchiaia e della salute cagionevole conduce una vita ritirata e non vuole rivelare il mistero, almeno finché non sarà lo stesso nipote Tito a scoprirlo leggendo le lettere ritrovate da Dante.

“L’amore vero brucia di dentro e non si vede… che ne può sapere una come te?”

Un viaggio attraverso luoghi della cara Sicilia, e attraverso il tempo, a ritroso dalla guerra verso i giorni nostri. Un viaggio alla scoperta di sentimenti contrastanti, fatto di passioni, tradimenti, desiderio, morte, avidità, ognuno in lotta per ottenere un pezzo di quel qualcosa di cui si sente defraudato: chi della verità, chi dell’affetto, chi delle attenzioni, chi del denaro, chi della felicità. Finale aperto e a tratti anche prevedibile. Ottima capacità dell’autrice di descrivere con abilità e dovizia di particolari ambienti, soggetti, caratteri e territori. Intrigante.

Boccamurata

Simonetta Agnello Hornby

Universale Economica Feltrinelli

270 pp

La cugina

Svegliarsi meno dolorante del solito è già una conquista…

Buongiorno!

Ieri ho riletto qualcosa di ciò che ho scritto qui anni fa, e ho sentito nostalgia per quella voglia di scrivere e raccontarmi, che negli ultimi anni ho dovuto mettere da parte.

Per prima cosa alle 6.30 ho messo su il latte per Lorenzo (2 anni), poi ho dedicato mezzora allo specchio, creme e cremine per mettere a posto la coscienza e rallentare i segni del tempo.

Il tempo. Avete mai fatto caso a quanta ansia è collegata a questa unità di misura?

Passato, presente, futuro… E ancora: fa bello, piove, fa caldo, fa freddo…

Perché non siamo mai del tutto contenti?!

Perché mettiamo in pausa Hic et Nunc e ci tormentiamo?

Mi prendo due minuti per respirare con calma e consapevolezza stringendo tra le mani la mia tazza del tè.

Scorro le notizie sul display dei vari social, la noia di leggere rabbia, odio, rancore, delusione, mi fa chiudere tutto.

Ma prima guardo chi ha messo il like ad una foto del mio amore.

È la foto di un sigaro cubano tenuta tra le dita, e scopro che fra i tanti like di profili maschili c’è quello di una donna… Entra immediatamente in scena la stalker che è in me e prende il sopravvento. Cerco di capire chi è, e cosa fa questa tettona che si esibisce spesso in selfie provocanti e discutibili… Tutto sembra tranne quel che sostiene di essere… Mi innervosisco per la gelosia che provo, ma dura due minuti. Respiro e preparo il caffè per lui, che si è appena alzato.

Bacio. (Giuda non era nessuno al confronto)

Lui: “Amore, come stai oggi?”

Io: “Meglio di ieri…”

Lui: “Ma sei arrabbiata ?”

Io: ” No.”

Lui: ” Sembri arrabbiata. Sembra che sei arrabbiata con me…”

Io: “No. Perché dovrei?

Ti dà fastidio sentire l’odore dell’acetone mentre fai colazione?” dico cancellando forsennatamente lo smalto sbeccato dalle mani e facendo inevitabilmente schizzare gocce di solvente dentro la sua tazzina col caffè…

Lui: “No. Amore. L’odore no, ma il caffè corretto con l’acetone non so se lo digerisco…”

Scoppiamo a ridere… Perché l’amore è soprattutto ridere per nulla!

Apro il freezer e infilo le mani smaltate per farle asciugare con l’aria fredda, prendo un respiro e chiedo: “Amore, chi è quell’unica donna, che ha messo il like alla foto del tuo sigaro? È una tua amica di Facebook, si fa selfie da zoccolona, non dirmi che anche questa non la conosci…. Poi lo sai, io sono femminista, ma ci vedo una certa allusione a quella foto, e il suo like mi sembra inequivocabile come messaggio…”

Lui scorre le notifiche. Guarda e mi dice: “Amore, ma questa è mia cugina…”

Taccio. Figura di merda. Come sempre.

La tradizionale festa dei defunti raccontata dallo scrittore Andrea Camilleri

Fino al 1943, nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre, ogni casa siciliana dove c’era un picciliddro si popolava di morti a lui familiari. Non fantasmi col linzòlo bianco e con lo scrùscio di catene, si badi bene, non quelli che fanno spavento, ma tali e quali si vedevano nelle fotografie esposte in salotto, consunti, il mezzo sorriso d’occasione stampato sulla faccia, il vestito buono stirato a regola d’arte, non facevano nessuna differenza coi vivi. Noi nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c’erano in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e di regali che avremmo trovato il 2 mattina, al risveglio.
Eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero venivano al letto, ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto. Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all’alba per andare alla cerca. Perché i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa. Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo. I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi. Avevo 8 anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato nelle mie preghiere, mi portò dall’aldilà il mitico Meccano e per la felicità mi scoppiò qualche linea di febbre.
I dolci erano quelli rituali, detti “dei morti”: marzapane modellato e dipinto da sembrare frutta, “rami di meli” fatti di farina e miele, “mustazzola” di vino cotto e altre delizie come viscotti regina, tetù, carcagnette. Non mancava mai il “pupo di zucchero” che in genere raffigurava un bersagliere e con la tromba in bocca o una coloratissima ballerina in un passo di danza. A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i morti. Per noi picciliddri era una festa, sciamavamo lungo i viottoli per incontrarci con gli amici, i compagni di scuola: “Che ti portarono quest’anno i morti?”. Domanda che non facemmo a Tatuzzo Prestìa, che aveva la nostra età precisa, quel 2 novembre quando lo vedemmo ritto e composto davanti alla tomba di suo padre, scomparso l’anno prima, mentre reggeva il manubrio di uno sparluccicante triciclo.
Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i morti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa consuetudine. Poi, nel 1943, con i soldati americani arrivò macari l’albero di Natale e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo spàsimo, i figli o i figli dei figli. Peccato. Avevamo perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nostra storia personale a quella di chi ci aveva preceduto e “stampato”, come in questi ultimi anni ci hanno spiegato gli scienziati. Mentre oggi quel filo lo si può indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico. E così diventiamo più poveri: Montaigne ha scritto che la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà, perché chi ha appreso a morire ha disimparato a servire.

L’unico modo per non avere paura di tutto ciò che sta avvenendo, è sapere chi sei, senza bisogno di dirlo, di proclamarlo. Ma se sai chi sei, con le tue tradizioni, non perderai mai la tua identità”.

Noi siamo stati un popolo che ha subito ben tredici dominazioni. Forse la dominazione che avrebbe potuto riscattarci, in un certo senso, dal carattere, sarebbe stata quella francese. Ma le altre, la greca, la romana, l’araba e la spagnola, sono state dominazioni che avevano un acutissimo senso della morte ed un altissimo senso della ritualità connessa ad essa. Credo che però le tradizioni non si perdano del tutto. Non si trovano più i regali, i bambini non mettono più il cestino sotto il letto. Ciò non toglie che tutte le pasticcerie siciliane, per il 2 novembre, preparino quei dolci speciali che servivano una volta per il cestino dei bambini. Questo è un modo di conservare comunque la memoria delle tradizioni. Credo non possa esserci un popolo senza memoria delle proprie tradizioni. Le tradizioni si modificano ma è fondamentale continuare a conservarle, in qualche modo, perché in un’epoca come la nostra, che è un’epoca di mutamenti, l’unico modo per non avere paura di tutto ciò che sta avvenendo, è sapere chi sei, senza bisogno di dirlo, di proclamarlo. Ma se sai chi sei, con le tue tradizioni, non perderai mai la tua identità”.

«Ma tu mi ami?» chiese Alice.
«No, non ti amo.» rispose il Bianconiglio.
Alice corrugò la fronte e iniziò a sfregarsi nervosamente le mani, come faceva sempre quando si sentiva ferita.
«Ecco, vedi? – disse il Bianconiglio – Ora ti starai chiedendo quale sia la tua colpa, perché non riesci a volerti almeno un po’ di bene, cosa ti renda così imperfetta, frammentata. Proprio per questo non posso amarti. Perché ci saranno dei giorni nei quali sarò stanco, adirato, con la testa tra le nuvole e ti ferirò. Ogni giorno accade di calpestare i sentimenti per noia, sbadataggine, incomprensione. Ma se non ti ami almeno un po’, se non crei una corazza di pura gioia intorno al tuo cuore, i miei deboli dardi si faranno letali e ti distruggeranno.
La prima volta che ti ho incontrata ho fatto un patto con me stesso: mi sarei impedito di amarti fino a che non avessi imparato tu per prima a sentirti preziosa per te stessa. Perciò, Alice no, non ti amo. Non posso farlo.»

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